Specchio e teoria del colore
Di Gianni Garrera
2023
La definizione è che la pittura è simile alla finzione dello specchio (Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, III, 402-404), cosicché la pittura più profonda è quella che più si attiene alla superficie e risolve il dipinto a pelo della tela. Nell’opera che riflette il mondo e simula la realtà (come nei paesaggi di Silvana Chiozza), il risultato della visione non deve annullare, però, la vista dell’esercizio pittorico, cioè non deve far dimenticare lo specchio. Per questo nei riflessi di Silvana Chiozza si ottiene un’astrazione pur mantenendo il legame mimetico con la natura. La pittura non prescinde dalla realtà, dal clima, dall’atmosfera, dal panorama, dalla stagione, ma rispetto a tutti gli elementi del mondo che dipinge non trascura di mantenere in evidenza i segni assidui e zelanti delle proprie riflessioni che sono parallele al mondo sul piano dell’autentica costituzione fisica della produzione delle cose naturali. La pittura mantiene la sua qualità, essa affianca sempre una propria totalità rispetto alla realtà. Il rispecchiamento della natura, in cui uno specchio (e la pittura è, come si è detto, per definizione, specchio) presenta anche se stesso, significa sovrabbondanza estetica e autonomia della traccia: il quadro e l’immagine che il quadro reca sono parenti e si immedesimano. Nelle speculazioni di Chiozza vi è il riflesso di una cosa e dello specchio stesso che la riflette. Speculato e speculante coesistono e si immedesimano e non entrano mai nella regione della dissomiglianza. Se Narciso, che è un paradigma della pittura, vede nello specchio d’acqua esclusivamente il suo ritratto (e in questo senso è narcisista), la pittura di Chiozza vede propriamente lo specchio d’acqua dove per caso si è affacciato anche Narciso, e la pittura dipinge totalmente l’intera superficie dello specchio d’acqua con tutti i riflessi, compreso il riflesso evidente di Narciso.
All’arte di Silvana Chiozza accade di articolare la contemplazione, affinché non si atrofizzi al primo sguardo, ma sia condotta alla mèta per mezzo di fitti e pulviscolari diagrammi, che forniscono una stabilità vivida alla contemplazione. Questa pittura è una totalità che si confronta con la puntualità e singolarità dei segni. I segni aspirano e, nello stesso tempo, sfuggono all’ideale naturalità della rappresentazione appropriata. Chiozza rivela che i segni empirici garantiscono un’immagine, non fanno dominare solo la figura, per la prevalenza dell’etere della superficie del dipinto, per l’uniformità proprio di aura pittorica, le sue coloriture alimentano il ridondare di tutta la spazialità necessaria. La tinta che eventualmente prevale ha un carattere anti-prospettico, che pure può essere inteso come un miscuglio di monocromie di elementi primari, senza fusioni magmatiche, analogamente alla maniera in cui fuoco e aria sono distintamente in lotta tra loro. Anzi, Chiozza opera, in senso cromatico, simulazioni ignee e pneumatiche. Infatti, tutta la pittura che prescinde dalla centralità della rappresentazione e dalla figurazione è, nei suoi assunti, sostanzialmente fisiocratica. La composizione della trama del quadro prescinde dai limiti della percezione e deve perciò escludere qualsiasi effettiva assolutezza di simboli naturali per sfigurarli nel reticolo del dipinto che così li sintetizza. Lo scorrimento del tempo viene abolito dalla sincronia delle dimensioni di un formicolio vitale dei colori. In fondo si tratta di tracciare quella continuità di tessuto che deve rendere un tremolio che è attribuito sempre al tremore del tempo. Il tempo ha un intimo movimento oscillatorio che non sviluppa da nessuna parte, perché il movimento è solo un tremore che si bilancia su se stessa, senza svilupparsi veramente in nessun senso (G.W. Leibniz, Die philosophische Schriften, Gerhardt, Berlin 1875, VII, p. 87). Questo tremolio è il fondamento, perciò la ragione di tutto è l’inquietudine di un’oscillazione minuta, permanente, e la prassi pittorica adottata da Chiozza è in rapporto con la resa di questo tremore. Il tempo non sta mai fermo, anche quando pare immobile, perché trema nell’intimo modulando. Quando un istante trascorre, trema nel profondo di sé, e ciò che in esso vi era di fisso vacilla e questo brivido (più esattamente il complesso di questi brividi) è ciò che riproduce Chiozza nelle sue superfici. Le vibrazioni che i segni apportano alla tessitura del dipinto sono una segnatura puntuale del tremore armonico del mondo, che graficamente si riverbera nella virtù fremente della tela.
Silvana Chiozza, quando lavora al dipinto, crede che i colori sia innati. Sa che la massima astrazione della pittura è il colore, perché i colori non confondono totalmente la propria natura con la realtà, in quanto in essi la verità non coincide necessariamente con la realtà. Il senso della realtà è incolore, non ha bisogno del colore. Il colore non è presupposto come condizione della verità, perciò è autonomo rispetto alle cose e le prescinde, è riconducibile a una dimensione apriori e avulsa dalla scena del mondo, dai fatti e dalle manifestazioni. I colori precedono l’esperienza dell’osservazione, coincidono con modalità innate, perché non sono a immagine e somiglianza di qualcosa. I colori sono ingenerati. L’azzurro celeste è la legge fondamentale del colore, non si cerchi nulla dietro il fenomeno: esso stesso è la teoria (J.W. Goethe, Maximen und Reflexionen, n. 488). In questo senso la cosa più alta è concepire che in pittura tutto ciò che è fattuale, in quest’ambito, è teoria.
In Silvana Chiozza, nel rapporto tra il pieno e la figura, se il tutto è pieno, la forma è il tutto, il rapporto non è discontinuo, chiama in causa i valori della compenetrazione e della continuità. Quando pienezza e forma coincidono, compito del pittore è sventare ogni pur minima vacuità. Nei suoi dipinti Silvana Chiozza insegna che nulla è acromatico, a-pittorico, e che la pittura tutto copre, tutto domina, tutto svela, non vengono distinte, nel lavoro, qualità dipinte e qualità in-dipinte. Il pittore non può dipingere senza dipingere. In questo caso il vuoto è nemico della forma. Nel rapporto tra forma e contenuto, il pieno ha le sue forme peculiari e la sua animazione. La pienezza aspira continuamente a essere tutta la forma, affinché essa sia la forma del tutto. La pittura in questo senso inverte l’assunto della creazione dal nulla. Il mondo non è creato dal nulla, ma dal tutto. La costruzione di Silvana Chiozza è una spazialità completamente satura, perciò è una costruzione non correlata con il vuoto. In più, le parti dipinte subiscono trattamenti che le omogeneizzano, in modo da garantire un’uniformità di epidermide pittorica. In questa pittura tutto è pitturale, anche quando emerge una figura cruciale. La porzione di spazio occupata dall’andirivieni di pennellate, pressoché date con un moto perpetuo, sviluppa l’integrazione dei corpi nel dipinto e la coincidenza di tutto sul piano rappresentativo. Postulare una pienezza e concepire lo spazio generale come il limite implicano un uso complesso della superficie.
La pittura qui non è contro la passività, anzi il quadro si realizza attivamente fino in fondo, in ogni suo angolo, e stima spettrale e troppo empirica la tintura immediata, esaustiva, irriflessa che potrebbe pur tollerare. La pittura, essendo lo strumento privilegiato dell’apparizione, ha uno spazio di manifestazione che è una superficie integrale, proprio come la superficie di uno specchio che non contempla parti non riflettenti. Il vuoto non contiene in sé né simula tanta realtà quanto il pieno. Si accede all’alterità di un ente non pittorico, che si impone pittoricamente, sempre facendo ricorso alla pittura e simultaneamente si soccorre ogni estraneità non dipinta per mezzo ancora di pittura concomitante. La pittura non prescinde dal dipingere, per cui la parte dipinta è la parte effettivamente realizzata. La pittura fa coincidere il dipinto con ciò che è realmente dipinto, in quanto la pittura collima con l’effettivo dipingere. La realtà rappresentata è unicamente la parte che risulta autenticamente realizzata e che è comunque configurata secondo una sua oggettiva modalità fisica rispetto alla quale la pittura non può elaborare differenti riflessioni che, per quanto concrete, sono però fisicamente alternative al modo prescelto sul piano della costituzione dell’opera. Nell’essenza riflessiva dell’attività estetica non è indifferente all’arte se il suo oggetto sia stato realmente dipinto o meno, perché non procede per allusioni. Il risultato è l’effetto dell’intelligenza sperimentale della pittura. Anche la verifica di una figura emerge dal corso del processo come se fosse un risultato raggiunto. Queste formazioni, scaturite dallo zelo pittorico, vengono alla coscienza sotto forma di rifiuto di ogni astensione dalla pittura. L’esperienza pittorica è un rapporto che è costituito esclusivamente dalla pura attività, dalla capacità di una prassi distinta, coerente, inesauribile. Il quadro riflette proprietà, esplora la possibilità di dipingere un quadro considerando unicamente regole desumibili da leggi pittoriche. Il campo pittorico, per essere integrale, deve realizzarsi con metodo, e ciò si traduce in primo luogo nella ripartizione della trama che comprende e risolve la struttura. Il risultato è un’uniforme comprensione della totalità, una presenza simultanea e sincronica di modellatura. L’ideale è spaziare la superficie con una configurazione specifica, nella prospettiva di mantenere la compresenza di figura e controfigura. La pittura spazia se stessa in applicazione a relazioni formali interne all’interno della propria articolazione, di modo che l’arte non è altra cosa all’infuori di se stessa e vive in forza della sua costruzione. Il contenuto è dato dallo strutturarsi stesso di segni come fossero atomi, o meglio dalle possibilità che essi rappresentano, allorché le strutture del linguaggio artistico sono anche significanti di per sé, come elementi primari, originari del mondo.